(…)
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
(…)
Eugenio Montale, Xenia I, 14, in Satura, 1971
STASI
IDENTITÀ
CAMMINO
FIGURA
STASI
Figura di donna. Corpo che irrompe nel presente. Avanza? Forse. È ferma? Forse.
Certamente si muove; ma il suo movimento è tutto interiore. La sua superficie registra le variazioni di luce attorno a sé, che riflettono i mutamenti lenti, lentissimi della realtà in cui si trova. I suoni che le giungono, le onde di cui sono composti, si infrangono sul suo corpo, che ovatta, calma, acquieta tutto ciò che la tocca… nonostante al suo interno tutto si muova: quel vuoto «è il pieno e il sereno». Ha un proprio suono, una propria voce: la materia di cui si compone, compatta, intera, vibra al tocco più forte, di chi la agita, di chi la desta da quel suo eterno riflettere. Non è moto il suo, ma stasi. Un potenziale espandersi verso il di là da qui, verso ciò che non è più “adesso”.
E questa stasi appare come un eterno presente.
La figura, seppur fortemente concreta, restituisce l’idea astratta del conflitto, di ciò che lo genera e al contempo delle sue conseguenze: un pensiero, un’immagine – apparsa anche soltanto per un istante nella mente di ognuno – che produce un blocco, un dubbio tra il fare o il non fare, tra l’andare o il restare. Un istante in cui il mondo interiore trasborda il limiti del corpo e si agita come un liquido che riempie quasi fino all’orlo il contenitore in cui è trasportato… come il colore che fuoriesce dalla linea di contorno tracciata su una superficie per racchiuderlo.
La scultura si protende nello spazio, statica difronte all’osservatore, ma la sua energia si agita e ne travalica le forme.
IDENTITÀ
Il conflitto che anima la figura la identifica più del suo volto e più del suo corpo. Volto e corpo sono caratteristiche che l’essere umano non sceglie; certo può alterarli, modificarli, esibendo così una scelta; ma in generale è difficile che, una volta rappresentati, manifestino il carattere nel suo complesso, la personalità: che identifichino fino in fondo l’individuo. Il conflitto al contrario evidenzia principalmente la personalità; il conflitto sorge al momento della scelta; esso mostra un’attitudine.
Nella opposizione tra essere e apparire il conflitto protende verso il primo. L’essere umano si identifica dunque più con i propri conflitti, con le proprie scelte da intraprendere, che con il proprio aspetto. Nel conflitto – argine dell’agire ma non del pensare – risiede l’identità della persona.
Paul Ricoeur distingue tra due livelli di identità: un’identità idem e un’identità ipse. L’idem, nel significato di “medesimo”, sta a indicare il permanere identico e immutabile nel tempo da parte del soggetto; l’ipse, nel significato di “stesso”, indica invece il processo dinamico cui il soggetto è sottoposto temporalmente nell’operazione di identificazione. Con il primo Ricoeur intende esprimere il lato statico del processo identificatorio, cioè il nucleo permanente del sé, sede dei tratti innati della personalità (ovvero il carattere) e di quei tratti acquisiti nell’arco dell’esperienza della vita temporale e assimilati in forma di sedimentazione contratta. Con il secondo Ricoeur fa riferimento al lato dinamico del processo di identificazione aprendo il soggetto all’esperienza dell’altro da sé. Il permanere di sé nel tempo è determinato così dal carattere, nel caso dell’idem, e dalla capacità di mantenere la parola data nonostante il cambiamento, nel caso dell’ipse.
La figura rappresentata da Argine sembra condensare entrambi gli aspetti dell’identità descritti da Ricoeur. Il conflitto si manifesta come una lotta tutta interiore tra l’idem e l’ipse: il processo dinamico dell’identificarsi protende la figura in avanti, ma quei tratti acquisiti nell’arco dell’esperienza della vita, fin dalla nascita, costituiscono un freno, forse un peso, che argina l’apparente continuo fluire della vita.
La vita, se paragonata ad un fiume, più che come un flusso ininterrotto, risulta una successione di argini: approdi dove giungere e dai quali eventualmente ripartire. Ogni volta che approdiamo, conduciamo al nostro punto d’arrivo qualcosa che abbiamo scelto di portare con noi. Al momento di ripartire – se scegliamo di ripartire – dovremo decidere ancora una volta cosa portare o ri-portare con noi e cosa lasciare. Ciò che dovremmo lasciare è proprio ciò che ci frena nella ri-partenza.
Argine mostra il peso di una eventuale scelta come parte integrante della scultura. Un gruppo di sacchi, posti l’uno accanto all’altro, si oppongono alla propensione della figura femminile verso ciò che le sta difronte. Ma è lei stessa a creare questa opposizione; è lei stessa a non voler “lasciar andare”, con il proprio braccio sinistro: quest’ultimo appare quasi come un cordone ombelicale… la donna proviene da lì, in un certo senso ne è “nutrita”… quei sacchi ne racchiudono l’identità.
CAMMINO
Probabilmente Paola Margherita, nella composizione dell’opera, ha subito la suggestione delle due sculture gemelle dei corridori rinvenuti nella Villa dei Papiri ad Ercolano, due sculture greche in bronzo, forse copie di originali della fine del IV secolo a.C. La figura femminile di Argine ripropone la stessa corrispondenza chiastica delle membra dei due atleti, protese a rappresentare il momento che precede il primo passo della corsa: quell’istante nel quale il corpo ancora non si è realmente mosso, ma che per poterne ricevere l’impulso, ha bisogno che se ne manifesti l’intenzione. Argine acuisce la torsione delle parti, aggiungendovi un livello chiastico ulteriore generato dalla opposizione tra il busto, proteso in avanti, e i pesi, che ne ancorano l’intenzione.
“L’uomo che cammina”, o più precisamente “l’uomo che compie un passo”, costituisce l’archetipo della rappresentazione del movimento della figura umana all’interno dello spazio. Nella statuaria egizia e in quella arcaica greca, la rappresentazione del “passo” costituì la conquista del movimento nell’ambito della espressione artistica (sia in scultura che in pittura); segnò una grande innovazione rispetto alla rappresentazione ieratica e statica delle figure umane in precedenza.
Nel corso dei secoli la rappresentazione del “passo” in ambito artistico ha costituito un archetipo sempre presente. Anche le avanguardie della prima metà del Novecento, pur riducendo all’essenza la figurazione umana, non hanno potuto rinunciare alla sua rappresentazione. Si pensi alle esili sculture umane di Giacometti, e a Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni. La figura umana si sfalda, perde di consistenza, ma resta il “passo” a rappresentare per convenzione, più di ogni altra cosa, la propensione del corpo in avanti.
Con la scoperta della fotografia, si scoprì anche che il corpo umano, bloccato nell’azione di camminare, si presentava molto diverso rispetto a quanto veniva rappresentato ricorrendo all’archetipo. Tuttavia il “passo” è rimasto il simbolo per eccellenza dell’azione umana. Paola Margherita fonde questo archetipo antico con una più puntuale rappresentazione dell’anatomia, al fine di evidenziare l’espressività intrinseca del corpo combattuto tra il desiderio di partire e quello di non voler lasciare ciò a cui sente di appartenere.
FIGURA
L’aver citato Boccioni ci aiuta ad introdurre un’altro aspetto di Argine, la sua manifesta figuratività. Con Forme uniche della continuità nello spazio il corpo umano avanza nello spazio e ne modifica le energie e gli equilibri; lo spazio “entra” così a sua volta nella scultura, mutando le forme del corpo, cancellandone le parti che non sono in grado di esprimere la continuità con l’ambiente che le accoglie. Un processo di dissolvimento della figura umana che Henry Moore e Barbara Hepworth hanno proseguito, levigando le proprie sculture fino alle estreme conseguenze di un dialogo tra i corpi e lo spazio in cui sono contenuti. Si tratta di un processo di mutazione della forma umana che si gioca tutto sul movimento: del corpo nello spazio o dei flussi (aerei, energetici, sonori, ecc.) che lo spazio contiene e che incidono sulle forme dei corpo.
In Argine la figura umana non può mutare, non può sfaldarsi. Il suo movimento non è nello spazio, ma è tutto interiore, si tratta di un movimento in potenza. Il dialogo che la scultura intraprende non è con lo spazio, ma con la storia, e più precisamente con gli archetipi del linguaggio del corpo. La scultura deve essere in grado di richiamare, nella coscienza dell’osservatore, quei pathosformeln ereditari che in questa scultura confliggono e che sono in grado di esprimere allo stesso tempo la volontà di muoversi e l’impossibilità a farlo.
È così che per Paola Margherita la sua «figura umana è più astratta di quello che sembra ed è più concreta per lo spazio che occupa. La mia figura di donna irrompe nel presente, quello tangibile e concreto, come personaggio di un racconto immaginario. Per questo motivo è intera e piena. Non è una distorsione del reale, né la traccia del passaggio umano e del suo dissolvimento».